Riflessioni sul lavoro con i minori e giovani stranieri ai tempi della quarantena da Covid-19

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Giuliano Capasso, un giovane operatore sociale della cooperativa Dedalus di Napoli che ha iniziato con il servizio civile per poi diventare operatore e lavoratore della cooperativa proprio in concomitanza con l’arrivo dell’emergenza, e che per questo vede a rischio il suo futuro lavorativo:

 

Poco più di un anno fa iniziavo il mio percorso in Dedalus, dapprima come volontario del servizio civile e in seguito come dipendente. Mi occupo di socializzazione, lavorando accanto alle operatrici e agli operatori del centro interculturale Nanà, che ogni giorno supportano i percorsi per il raggiungimento dell’autonomia di moltissimi minori stranieri e neomaggiorenni. Sono entrato ufficialmente a far parte dell’équipe appena prima dell’emergenza coronavirus, che in un istante ha trasformato radicalmente tutto ciò a cui mi ero abituato nell’anno appena trascorso: la scuola, i laboratori, le partite a biliardino, la vicinanza in senso ampio con i ragazzi che frequentavano i nostri spazi.

 

Sin dall’inizio della mia esperienza lavorativa il mio obiettivo è sempre stato quello di creare un ponte nel rapporto tra operatori e ragazzi, cercando di pormi in una prospettiva il più possibile orizzontale con questi ultimi, di conoscerli e capirli. Con l’evolversi della pandemia, venendo meno la quotidianità del tempo e dello spazio trascorso con i ragazzi, ho trovato veramente difficile coltivare il mio modus operandi per il quale, normalmente, necessito di costanza e fisicità nei rapporti, elementi di fatto cancellati dalle norme sul distanziamento sociale.

 

L’impatto del virus sulle nostre vite, infatti, ha scombinato, più o meno tutti i piani che componevano la nostra realtà quotidiana, ed è proprio questa, a mio parere, a rappresentare l’elemento centrale su cui si basava il nostro lavoro: la realizzazione di una quotidianità, con e per i ragazzi, che ponga le basi per un futuro più certo, di autonomia e realizzazione personale. Ma come ricrearla in un contesto come quello attuale? Questa è la domanda da cui ho provato a ripartire, riformulando le strategie e gli strumenti del mio lavoro sulla base di quanto riuscivo a cogliere dalle reazioni dei ragazzi. Ho tentato di ragionare sui loro pensieri e le loro strategie di resilienza, con l’intento di creare nuove forme di contatto, principalmente con l’obiettivo di non farli sentire soli, ma soprattutto incompresi.

 

Su questo presupposto, con gli altri operatori e operatrici abbiamo scelto di creare degli spazi di espressione in cui tutti potessero dare sfogo ai propri pensieri sulla quarantena. Nascono così, ad esempio, i tre video intitolati “VOCI DALLA QUARANTENA”, spazi di ascolto volti a raccogliere riflessioni, saluti, consigli e quanto altro riguardasse la nuova quotidianità “in isolamento”. L’idea di adottare lo strumento audiovisivo e i social ci ha permesso essenzialmente di colmare, in parte, il vuoto creato dal distanziamento sociale, riducendone l’impatto emotivo.

 

Nella stessa direzione, abbiamo voluto approfondire con loro il concetto di libertà, sfruttando la ricorrenza del 25 Aprile, per dare spazio ad un tema che, mai come in questo momento, appare come l’obiettivo comune delle nostre esistenze. Va sottolineato, inoltre, come questo cambiamento abbia prodotto un’occasione di apprendimento anche per noi operatori, alle prese con una full immersion nei linguaggi comunemente utilizzati dai nostri ragazzi: videochiamate, chat, social, creazione e montaggio di video, pubblicazioni, condivisioni e via dicendo… Mai come in questo caso, quindi, l’utilizzo che i ragazzi fanno dei propri cellulari, che spesso critichiamo, si è rivelato un’ottima strategia per ricreare condizioni di quotidianità e contatto e ci ha permesso di proseguire, per quanto possibile, con i percorsi di formazione e istruzione che erano stati bruscamente interrotti dall’emergenza. È questo il caso delle videolezioni di Margherita o del corso HACCP che sto portando avanti essenzialmente su WhatsApp, dove condivido le mie lezioni, i materiali e raccolgo le foto degli esercizi svolti.

 

Da un lato quindi, l’utilizzo delle diverse tecnologie di comunicazione ha smorzato il senso di angoscia e solitudine che ha riguardato un po’ tutti, aiutando nella strutturazione di una nuova idea di quotidianità. Dall’altro è stato essenziale garantire, con il massimo delle precauzioni, anche dei momenti di cura e vicinanza fisica: non posso e non voglio immaginare, infatti, un lavoro come il nostro in un’ottica di completo distanziamento. Una volta a settimana, quindi, muniti di guanti e mascherina – sembravamo usciti da qualche scena del crimine! – ci si è recati negli appartamenti dei ragazzi, dove le sensazioni sono state tante e spesso contrastanti. Convivere non è cosa semplice, farlo in maniera forzata, senza una prospettiva di quando tutto questo finirà, lo rende ancora più difficile. La casa ci protegge dall’esterno, ma per molti ragazzi si è rivelato uno spazio di conflitto, in cui imparare a negoziare, a mediare, ad avere rispetto dello spazio comune. La casa si trasforma così anche in tempo, talvolta infinito, in cui riflettere su sé stessi e sugli altri, sui percorsi interrotti, sulle prospettive future una volta tornati alla normalità.

 

È generalmente in questo spazio, dopo aver ricordato le solite indicazioni, che mi dedico più da vicino all’ascolto dei ragazzi, cercando di osservare gli sguardi e gli atteggiamenti per capire come se la passano. Quelli che formalmente chiameremmo colloqui si trasformano, ora, in chiacchierate amichevoli, come quelle che solitamente ci facevamo giocando a biliardino, momenti di contatto in cui ascoltare, comprendere e, se possibile, sostenere e rassicurare. È così che, ad esempio, parlo con Hamza, che appare triste e frustrato perché aveva trovato lavoro da poco e lo faceva con passione e dedizione, mentre Gramoz mi racconta che è rassegnato all’idea che tra poco compirà 18 anni e non ha modo di progettare le sue prossime mosse; Doumbia mi chiede di sistemargli il computer per poter seguire le lezioni di scuola e Dilal, chiuso in camera, prepara con cura il proprio esame di maturità, lamentandosi del cambio di materie. Qualcun altro sonnecchia nel letto e mi promette, mugugnando, che prima o poi si alzerà, qualcun altro ancora mi chiede quando finirà tutto questo, alla ricerca di risposte che purtroppo non sono in grado di dare.

 

In conclusione, nonostante le difficoltà e le frustrazioni, nonostante i ritmi del giorno e della notte si siano ormai invertiti per molti di loro, ognuno cerca dentro di sé un motivo per far sì che la vita vada avanti, sostenendosi a vicenda, anche attraverso lo scontro. Quella quotidianità cui accennavo all’inizio, base per ogni progetto di vita futuro, c’è ancora e ci sarà ancora, ma ha certamente cambiato forma e probabilmente cambierà ancora. Ciò nonostante va curata e sostenuta, oggi come ieri, ed è quello che con fatica sto e stiamo cercando di fare con il nostro lavoro ai tempi della quarantena.

 

Vorrei spendere, infine, un ultimo pensiero sui ragazzi. Negli spazi di convivenza le difficoltà non sono mancate, e non sempre essi sono stati in grado di gestire i loro comportamenti e le loro emozioni, in costante conflitto tra rassegnazione, pigrizia, e voglia di spaccare il mondo. Voglio tuttavia sottolineare che ho trovato in loro persone responsabili e consapevoli della delicatezza della situazione. Adolescenti che, alle porte dell’estate, stanno rinunciando a moltissime esperienze e che hanno dato priorità massima al senso di responsabilità collettiva, a discapito delle loro voglie e desideri.

 

Bisognerà ripartire da loro, dalle persone, dall’incontro tra culture e progetti di vita, nella speranza di un mondo migliore.