Coronavirus: cosa è cambiato per gli ospiti di “Radici”

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L’epidemia di coronavirus è arrivata come uno tsunami e da un giorno all’altro ci stiamo trovati tutti quanti a dover rivedere i nostri stili di vita e di lavoro. Ma l’emergenza non ha colpito tutti allo stesso modo.

 

Per alcuni, affrontare questo periodo di isolamento forzato e, spesso, di inattività è più difficile che per altri. Tra le persone a cui il coronavirus ha più radicalmente cambiato l’esistenza ci sono i ragazzi, come i 18 ospiti di “Radici”, gli appartamenti per l’autonomia del CeAS, dedicati a minori stranieri non accompagnati e neomaggiorenni.

 

Racconta Mona Ilie, responsabile del servizio: “I nostri ragazzi, che hanno tra i 16 e i 19 anni, sono passati dall’avere delle giornate molto piene – tra scuola, lavoro, corsi di formazione – a giornate molto vuote. Solo due persone stanno continuando a lavorare, mentre per gli altri, che erano impiegati nella ristorazione, o studiavano o stavano per iniziare la formazione per lavorare nella GDO ora sono fermi. Il loro ritmo di vita è cambiato completamente”.

 

A cambiare è, in questo periodo, anche il lavoro degli operatori: quelli di “Radici”, infatti, sono appartamenti per l’autonomia quindi l’obiettivo del lavoro educativo è l’accompagnamento dei ragazzi all’indipendenza. Ora è tutto stravolto e gli educatori stanno mettendo in campo tantissime energie per sostenerli in questo momento così complicato. Agli operatori spetta, per esempio, il compito di motivarli quotidianamente, fin dalla sveglia del mattino, segnalandogli tante attività da fare: dai corsi online – tra cui quello di italiano per il lavoro di Work in Progress – ai laboratori o altro. Ma non è sempre facile coinvolgerli: “Chi già prima più curioso, si informava e si impegnava lo fa anche adesso; gli altri invece hanno poca motivazione e fanno molta fatica”, spiega ancora Mona.

 

Inoltre – continua l’operatrice – non tutti hanno gli strumenti tecnologici per seguire la didattica a distanza. E poi c’è il problema della connessione, perché negli appartamenti non c’è il wi-fi. Ora dovrebbe arrivare un computer per ogni appartamento, ma se più ragazzi devono seguire corsi diversi che si svolgono in contemporanea, come si fa?”.

 

Anche la convivenza tra i ragazzi non è facile, se si considera che prima di essere accolti negli appartamenti, spesso non si conoscono tra loro e non è detto che poi vadano tutti d’accordo. Prima, avendo giornate molto impegnate, condividevano questo spazio di vita per poche ore al giorno, ora invece sono costretti a convivere 24 ore su 24.

 

Per quanto riguarda i ragazzi, non vedono l’ora che arrivi fase due per poter uscire, ma tra gli operatori non mancano le preoccupazioni: “Ora i ragazzi sono sotto controllo, li teniamo quasi sotto una campana di vetro e per tutelarli al massimo non li facciamo uscire nemmeno per fare la spesa, che portiamo noi, così come abbiamo organizzato a domicilio e in tutta sicurezza i colloqui con la psicologa o l’assistente sociale. Ma dopo potrebbe essere più difficile prenderci cura della loro salute. Noi diamo e daremo loro consigli e indicazioni e consegneremo tutti i dispositivi di protezione necessari, ma non potremo sapere dove andranno, chi vedranno e se li useranno. Anche perché, nonostante con loro parliamo molto della situazione e sappiano anche cosa sta succedendo nei loro paesi d’origine, sembrano non avere molta consapevolezza della gravità del momento. Per questo, a breve inizieremo un nuovo lavoro educativo con loro per affrontare la fase due”, spiega ancora la referente di Radici.

 

Certo le difficoltà non mancano ma, conclude Mona, occorre anche essere comprensivi: “Prima di essere albanesi, kosovari, pakistani o egiziani dobbiamo sempre avere in mente che sono degli adolescenti e che quindi stanno attraversando una fase della vita che è già difficile di per sé, in cui vogliono crearsi una loro autonomia che ora è inevitabilmente limitata”.